Dare corpo alla cura di sé

Sfogliare una rivista in primavera, o anche semplicemente girare per strada tra i manifesti pubblicitari, sembra trasmettere un messaggio piuttosto squillante: sei abbastanza in forma da meritarti l’estate? Il tuo corpo è pronto a essere sfoggiato in spiaggia? Il tuo fisico è abbastanza magro, muscoloso, giovanile, tonico, esfoliato, dorato e attraente?

Il discorso è complesso. Mentre si moltiplicano i discorsi sull’inclusività, sulla diversità, sull’importanza di promuovere tanti tipi di bellezza, nel nostro quotidiano continuiamo a scontrarci con criteri di selezione impliciti ma molto radicati, che ci vogliono perfettamente aderenti a determinati canoni. E il giudice più severo, più impietoso, più pesante sul nostro corpo è, molto spesso, il nostro stesso sguardo davanti allo specchio.

Se gli stereotipi veicolati da media e pubblicità hanno sicuramente un ruolo, è anche vero che molti di questi modelli sono ormai saldamente incastonati dentro di noi: fanno parte dei nostri paradigmi e, come tali, secondo l’approccio del coaching, possono essere smontati, cambiati e sostituiti con altri più funzionali. Il tutto, grazie all’allenamento.

A proposito di allenamento. Uno studio, commissionato di recente dal marchio Asics per sondare il rapporto che le persone hanno con l’attività fisica, ha offerto qualche risultato che ci fa pensare. Tre quarti degli intervistati adulti ha ammesso di vivere l’esercizio fisico come un compito ingrato e non come un piacere. Più di un quarto ammette di considerarlo solo ed esclusivamente un mezzo per migliorare il proprio aspetto. L’82 per cento, però, ricorda di aver amato sinceramente lo sport durante l’infanzia e, infatti, su mille bambini tra i 6 e gli 11 anni, ben il 92 per cento dichiara per fortuna di considerare l’attività fisica un grande piacere. E allora? Cosa ci succede strada facendo?

Durante l’infanzia, la maggior parte delle attività che coinvolgono il corpo sono spontanee, giocose, compiute per puro divertimento. E anche quando si fa sport agonistico, quando si gioca per vincere, e non solo per divertirsi, la finalità è connaturata all’attività stessa. I bambini non hanno un “secondo fine”: non corrono “per dimagrire”, non saltano per “tonificarsi”, non giocano a calcio per “superare la prova costume”.

La più grande differenza è che, crescendo, collochiamo il motore delle nostre azioni “fuori di noi”. Molto spesso facciamo attività fisica, o curiamo l’alimentazione, o scegliamo cosa indossare per essere conformi a delle aspettative, non semplicemente per stare bene con noi stessi. Spostiamo il nostro criterio di valutazione dalla funzionalità all’estetica. Così l’esercizio diventa un peso, il “mangiar sano” un obbligo, seguire la moda un diktat.

Più o meno agli antipodi, rispetto a questo approccio, si colloca la “cura di sé”: una delle potenzialità più importanti individuate dal coaching umanistico che, come sapete, è uno degli attrezzi presenti nella mia “cassetta da lavoro”.

Che cos’è la cura di sé? Secondo una delle possibili definizioni, la cura di sé è addirittura la “potenzialità madre”. Una descrizione piuttosto solenne, che serve a evidenziare come questa potenzialità sia il terreno fertile che accoglie con premura, abbraccia e permette di crescere a tutte le altre potenzialità. Il fondatore del coaching umanistico Luca Stanchieri  dice che lo scopo della cura di sé è “proteggere e amare la propria vita; farla fiorire e prosperare. La cura di sé spinge a prendersi cura del proprio sviluppo interiore che è individuale e relazionale al tempo stesso.”

In altre parole, il compito della cura di sé è sostenere l’energia vitale, considerando la nostra dimensione fisica, mentale e spirituale nel suo insieme. Ecco che, appena si passa a questa visione della persona nella sua interezza, il concetto di aderire a dei canoni si svuota completamente di significato. La ricchezza interiore si riflette all’esterno e in essa consiste la vera bellezza: il nostro compito non può che essere quello di lasciar filtrare la luce e brillare! Tenendo presente che, se è sempre legittimo e buono il desiderio di migliorarsi, allenando il potenziale dell’autosuperamento, è anche fondamentale accogliersi profondamente come si è, per poter attivare dei cambiamenti. E diventa così molto chiaro che questo tipo di bellezza ha poco a che fare con i canoni imposti: star bene con se stessi, sentirsi abbastanza forti da poter mettere a frutto i propri talenti, aver voglia di dare il proprio contributo per rendere il mondo un posto migliore… beh, non si possono misurare con una taglia o con un’etichetta.

La strada per fiorire può davvero passare attraverso l’insegnamento che ci danno i bambini con le loro risposte sullo sport. Il segreto è cercare la gioia: quella che trasforma anche la fatica in piacere, quella che fa sentire di star bene nella propria pelle.

Occorre dunque lavorare sui nostri sensi e sui nostri sentimenti. Esplorare, approfondire e riconoscere il nostro sguardo sulle cose, eventualmente per trasformarlo. Saper scegliere i nostri pensieri, coltivare l’essenziale e prendere le distanze dai pensieri depotenzianti. Sappiamo che, se riusciamo a cambiare il modo di concepire un aspetto della realtà, quello si trasforma.

Cura di sé vuol dire scegliere con attenzione, e dare spazio, a quei pensieri e a quei sentimenti che ci permettono di fiorire e tenere alto il nostro amore per la vita. E attenzione: lungi dall’essere un lavoro di ripiegamento su se stessi, la cura di sé è l’inizio di ogni possibilità di donare! Solo avendo coltivato con cura il nostro giardino, potremo avere semi e fiori da regalare intorno a noi.

La cura di sé va allenata attraverso pratiche concrete e quotidiane: così, a sua volta, ci consente di sviluppare le condizioni necessarie per poi allenare tutte le nostre altre potenzialità. E giungere al cambiamento che desideriamo. Anche, perché no, del nostro aspetto fisico! Purché sia inteso come la forma della luce che portiamo nel mondo.

Vi propongo dunque un piccolissimo allenamento, donatomi anni fa da una delle mie più care maestre, Alessandra Comneno. Prendete un fiore, quello che volete purché vi piaccia: osservatene la bellezza unica, la delicata ma prorompente vitalità, lo splendore che supera le eventuali imperfezioni… e specchiatevi in esso. Ditelo a voce alta, per renderlo più concreto: “È questo che sono, un fiore prezioso!”. Impariamo a guardarci così.