Il bullo e la vittima, nello stesso abbraccio

Il 7 febbraio è la data scelta per sensibilizzare sul fenomeno del bullismo. Sapete che una parte del mio lavoro si svolge nelle scuole e a contatto con gli adolescenti: non vi sarà difficile indovinare che, come mamma e come professionista, è un tema che mi sta molto a cuore. Ma come entrare in questa delicata questione? Cosa dire a chi, magari, ha già sperimentato in prima persona il dolore e la fatica di essere vittima dei bulli?

Mi permetto di fare un passo indietro e provare anzitutto a definire i contorni del fenomeno. Il bullismo è “caratterizzato da azioni violente e intimidatorie esercitate da un bullo, o un gruppo di bulli, su una vittima” (definizione del Miur): può comprendere molestie verbali, aggressioni fisiche o veri e propri atteggiamenti persecutori. Si svolge tra pari – coetanei, compagni di classe, compagni di squadra – ed è normalmente identificato come un fenomeno giovanile. Gli studi e la giurisprudenza hanno fissato alcuni paletti: perché si possa propriamente parlare di bullismo occorre che siano presenti tre condizioni: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Tradizionalmente si parlava del bullismo come “piaga adolescenziale”, ma l’età media si è abbassata di molto: oggi il picco si attesta tra gli 11 e i 13 anni. Tra i maschi prevalgono le intimidazioni e le aggressioni fisiche, mentre tra le femmine si tratta più spesso di prevaricazioni e violenze di tipo psicologico (compreso il diffondere voci false su qualcuno o il promuoverne l’esclusione), ma non è una regola fissa.

È interessante notare come la data del 7 febbraio, in Italia, sia stata scelta in analogia con una data precedente, fissata dall’Unione Europea fin dal 2004, e chiamata “Safer Internet Day”, cioè “Giornata per una Rete più sicura”: fin dalla sua istituzione, quindi, questa giornata di riflessione porta l’attenzione anche sul “cyberbullismo”, cioè la trasposizione in rete dei comportamenti vessatori. È oggettivo, e piuttosto ironico, che i “social” siano oggi il luogo privilegiato per molti dei comportamenti anti-sociali tra teenager. Una sfida ulteriore per noi adulti, non nativi digitali, impegnati in un’attività di educazione e di controllo mai toccata alle generazioni precedenti.

Naturalmente, un fenomeno così esteso e complesso, a cui fior di studiosi dedicano attenzione da anni, non può essere esaurito in un semplice post.

Tuttavia, oltre ad unirmi al coro di chi pubblicizza questa data come occasione di riflessione e approfondimento, vorrei con semplicità offrirvi il mio punto di vista, che non potrà che essere fedele, per intenti, valori e approccio, al mio sguardo generale sulla realtà. Troverete perciò, nelle prossime righe, il riecheggiare di una serie di temi a me cari, e già trattati anche in questa sede. Non mi scaglierò contro il degrado della società, non invocherò punizioni esemplari e non criminalizzerò “i ragazzi d’oggi, così abituati ad avere tutto”.
Non potrò fare altro che quello che faccio sempre: parlare d’Amore. E proporvi di considerare la possibilità che il bullo e la sua vittima ci stiano chiedendo esattamente la stessa cosa: di essere visti. Di essere accolti. Di essere abbracciati.

Non è un’idea solo mia: le linee guida internazionali sul bullismo ne parlano ormai da anni. “L’educazione all’empatia dovrebbe sempre essere inclusa nei programmi di prevenzione e intervento del cyberbullismo per ridurre il comportamento aggressivo e di bullismo offline – si legge nella citatissima “Rassegna di caratteristiche e strategie di prevenzione e intervento sul bullismo” del 2015 – Gli adolescenti potranno così imparare ad assumere altri punti di vista; si potrà insegnare loro a vedere i problemi e le lamentele dal punto di vista della vittima; aiutarli a sperimentare indirettamente le emozioni della vittima, invece di impegnarsi in risposte tipiche di colpevolizzazione della vittima”. O, aggiungo io, di mera colpevolizzazione del carnefice. O, aggiungo ancora provocatoriamente, di “vittimizzazione della vittima”.

Provo a spiegarmi, sapendo di muovermi su un terreno difficile e senza voler negare l’ovvio, e cioè che i comportamenti aggressivi e violenti sono sbagliati, e che occorre difendere chi ne cade vittima. E senza assolutamente togliere valore, anzi, al sacrosanto istinto di protezione che ci suscita veder trattare male un bambino, a maggior ragione se il nostro. Eppure, vorrei portare il discorso su un piano un po’ più ampio, uscendo dalla logica della colpa e del colpevole.

La prima e più grande lotta tra il bene e il male si svolge sempre dentro di noi. Come adulti, possiamo renderci conto che spesso bullizziamo noi stessi, alimentando dentro di noi un senso di separazione, un continuo giudizio, uno sguardo duro e severo di rifiuto verso noi stessi e verso la vita: questo alimenta inevitabilmente il conflitto anche attorno a noi. Il primo gradino da fare per sconfiggere fenomeni come il bullismo è diventare autenticamente costruttori di Pace: prima di tutto, della nostra pace interiore. Dobbiamo accogliere la vittima e il carnefice che convivono dentro di noi, per poterci accorgere che l’altro, quello che incontriamo, sta dando voce a qualcosa che non ci è mai completamente estraneo. E così riuscire ad accogliere (e ad amare!) il bisogno di essere visti, tanto del bullo quanto della vittima. Facendo attenzione, peraltro, a considerare questi come dei ruoli temporanei: tutti noi possiamo crescere, evolvere e migliorarci. Nessun ragazzo è soltanto “un bullo”, nemmeno quando ha commesso gesti deprecabili: lo è stato, magari, ma può imparare a non esserlo. E ha il diritto di potersi togliere quell’etichetta. Lo stesso identico diritto che ha la vittima: guai a etichettarla come tale e alimentare un senso di debolezza e di inadeguatezza che, probabilmente, già sente. Chi è stato vittima di bullismo lo è stato, in quel frangente: va accolto e accompagnato ma non è un predestinato, e potrà presto non esserlo più.

Come adulti, dobbiamo sentire forte la responsabilità di educare i ragazzi e le ragazze all’intelligenza emotiva e all’empatia. Se imparo a riconoscere le mie emozioni e a dar loro voce, accumulerò meno frustrazione e meno aggressività repressa. Se imparo a vedere l’altro, a riconoscere le sue emozioni, a immedesimarmi nella sua sofferenza, mi sarà più difficile procurargliene volontariamente.

La sfida più grande, ma anche l’unica via possibile, è insegnare a riconoscere e amare la vulnerabilità, cominciando dalla nostra. Mostrare come rispondere creativamente e proattivamente agli stati d’animo che ci trascinano giù. Aiutare i ragazzi a vedere se stessi e gli altri per quello che sono davvero: un mondo pieno di potenzialità da esplorare ed esprimere. La verità è che a nessuno piace essere temuto, se invece può essere apprezzato e amato per quello che è.

A volte si sente dire che occorre “fare prevenzione”: è senz’altro vero se intendiamo che sia giusto agire prima, non lasciare che accada… ma è un concetto decisamente stretto se accettiamo l’idea che quel che c’è da fare sia incoraggiare alla Vita, instillare fiducia e speranza, promuovere la pace e l’amore!

Come si può ridurre questo a “fare prevenzione”? Perciò ricordiamo che, come sempre, siamo tutti interconnessi, parte di un sistema che, per funzionare, ha bisogno che nessuno sia lasciato indietro, nessuno sia escluso. È troppo comodo liquidare il bullismo come un fenomeno adolescenziale. Ci riguarda tutti. Tutta la comunità è chiamata a farsene carico. Con l’esempio e con la responsabilità. Intervenendo quando è il caso. Ma soprattutto veicolando veri messaggi di accoglienza e di pace. Insegniamo ai nostri figli che ciascuno è un dono. Chi non ha paura delle proprie emozioni, ed è allenato a lasciarle sgorgare, difficilmente diventerà una vittima ed eventualmente saprà cercare aiuto. E chi è impegnato a vivere e a realizzare se stesso non perderà se stesso per trasformarsi in carnefice.