Come sai se mi conosci, questa è senz’altro la configurazione che prediligo in ogni tipo di incontro, perché prelude alla condivisione e all’apertura reciproca: è il punto di partenza ideale per qualsiasi rituale, per un momento di costellazione, per una semplice occasione di ascolto.
Ma perché? Il cerchio, figura perfetta e senza angoli, è la forma più utilizzata, fin dall’antichità e a livello universale, per comunicare i concetti di armonia, uguaglianza e continuità. La sua struttura geometrica racchiude un significato profondo: ogni punto sulla sua circonferenza è equidistante dal centro, senza gerarchie né privilegi. Questo semplice fatto lo rende un simbolo potente di unità e pace, un modello ideale per la convivenza umana. A maggior ragione di questi tempi.
Come metafora della perfezione divina, della ciclicità della vita e delle stagioni, nonché dell’unione cosmica, il cerchio è stato celebrato in numerose culture. Nella mia formazione, però, esso è legato soprattutto alla tradizione sciamanica. Per le tribù native americane, infatti, il cerchio era una configurazione sacra, un luogo in cui ritrovarsi e condividere. Stare attorno al fuoco non era solo una scelta funzionale, per scaldarsi, ma anche spirituale: rappresentava la comunità, l’energia e la protezione. Sedersi in cerchio significava essere parte di qualcosa di più grande, perché “appeso ai quattro lembi dell’Universo, sostenuto dai quattro venti che soffiano agli angoli del firmamento, si estende il Cerchio della vita”. Così, temprati dal fuoco, si vedeva con chiarezza come sarebbe stato inutile mentire, ma anche giudicare, rimproverare o rimpiangere.
Ogni persona, equidistante dal centro, è uguale, senza gerarchie o disparità. La bellezza del cerchio risiede anche nella sua capacità di connettere gli individui: tutti possono guardarsi negli occhi, promuovendo la comunicazione diretta e sincera. Quando uno parla e gli altri ascoltano, si crea uno spazio di rispetto e attenzione reciproca che rafforza il senso di comunità.
Inoltre, come dicevamo, in molte tradizioni il cerchio incarna un altro concetto a me molto caro: quello della continuità e del ciclo naturale delle cose. Nella cultura Maya, ad esempio, il tempo è rappresentato come un cerchio, dove ogni momento si collega al prossimo in un ciclo eterno. Il Popol Vuh, testo sacro dei Maya, celebra questa ciclicità: “Il movimento è circolare, il ritorno è certo. La fine è l’inizio”, come ha avuto modo di ricordarci il maestro Carlos Jesus Castillejos. Questo concetto di continuità si riflette nei cicli della natura, come il susseguirsi delle stagioni, ma anche nel passaggio della vita e della morte, dove non c’è mai distacco ma eterna presenza. Anche nella filosofia tolteca, il cerchio assume un ruolo centrale: rappresenta l’universo in equilibrio, dove ogni elemento trova il proprio posto senza dominare l’altro. Ogni esperienza è parte del tutto, ogni momento è sacro.
Il valore simbolico del cerchio, naturalmente, si estende a molte altre culture e tradizioni: basti pensare allo yin e lo yang, ai mandala indiani o ai rosoni delle chiese. Come ogni volta che un simbolo è così universale, è legittimo pensare che porti con sé un valore intrinsecamente umano. In questa disposizione, ogni persona si sente una perla di una stessa collana, parte di un tutto armonioso. Non ci sono posizioni dominanti; ogni voce ha il suo spazio e ogni sguardo trova un altro sguardo. È favorita una comunicazione autentica e inclusiva, dove ciascuno può esprimersi in un senso di appartenenza.
Il cerchio è molto più di una forma geometrica. Per questo l’ho voluto anche nel mio logo: a dire che, del nostro cammino, gli Altri sono testimoni e mai giudici, talvolta complici, sempre fratelli. Apparentati nella vicenda umana, fanno circolare la nostra stessa energia, in una forma perfetta che è sempre centro, e mai recinto. Perché, come dice Lao Tzu, fondatore del taoismo, “un cerchio infinito è il riflesso di un cuore aperto.”
